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venerdì 26 dicembre 2008

UN VERDE CHE SIA VERDE


di G. Bettin
articolo pubblicato sulla rivista Lo Straniero 2008

Se le equazioni dell’ecologia tornano, il regno della libertà è stato spostato più lontano che mai”: nel suo datato ma preveggente saggio del 1973, “Per la critica dell’ecologia politica” (pubblicato in Italia in “Palaver. Considerazioni impolitiche”, Einaudi 1976), Hans Magnus Enzensberger segnalava così l’irrompere, nel dibattito ideologico e nel confronto storico-politico, nella stessa dinamica del conflitto sociale ed economico, del nuovo paradigma ecologista. Non erano ancora nati i Verdi, neanche in Germania, dove invece cominciavano a svilupparsi le “Burgerinitiativen”, le iniziative civiche che tanta parte avranno negli anni successivi nella formazione e nel radicamento dei Gruenen, oltre che nei loro successi elettorali (che li porteranno anche al governo del Paese, oltre che di importanti città e lander). Enzensberger identificava un carattere piccolo borghese e anche una parzialità e unilateralità di approccio in questa nascente sensibilità e iniziativa ecologista. “Il movimento ecologico”, scriveva, “è incominciato solo dopo che anche i quartieri e le condizioni di vita della borghesia sono stati esposti ai danni ambientali che il processo di industrializzazione porta con sé”. La piccola e media borghesia ormai incapace di difendersi “privatamente“ dall’inquinamento avrebbe così prodotto una nuova ideologia, l’ecologismo (che a sua volta iniziava produrre una vera e propria industria, un grande business, del disinquinamento). Viceversa, “date queste premesse, è facile capire che la classe lavoratrice non si interessi troppo dei problemi ecologici generali, e sia pronta a impegnarsi attivamente solo quando si tratta del miglioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro”, e quindi, “non sorprende il fatto che la sinistra europea non si sia impegnata nel movimento ecologico. è vero che essa sceglie certi aspetti della discussione ecologica e li inserisce nel repertorio della sua agitazione anticapitalistica, ma nei confronti delle ipotesi ecologiche di base tiene un atteggiamento scettico”.
Più di trent’anni dopo, non è più possibile dire che l’ecologia sia una mera ideologia piccolo borghese. Non solo il suo statuto di scienza è andato acquisendo credibilità, ma le sue diagnosi e le sue previsioni, ancorché a volte controverse, sono il terreno di confronto decisivo – insieme alla questione degli armamenti – di ogni strategia politica, economica e militare. Anche quando viene ufficialmente rimossa o derubricata a questione tra le altre, quella ecologica (cioè la somma dei problemi legati alla disponibilità di materie prime e risorse energetiche e dei problemi determinati dall’impatto ambientale delle attività umane) è in realtà la vera questione cruciale di quest’epoca, l’oggetto reale del confronto e spesso dello scontro, anche armato, tra superpotenze, potenze regionali, stati nazionali, etnie, lobbies, corporations, perfino gruppi terroristici (a cominciare dal Al Qaeda, che sulle petrocrazie soprattutto mira a metter le mani). Si può utilmente leggere “Ambiente e giustizia sociale”, di Wolfgang Sachs (Editori Riuniti, 2002), per avere un convincente quadro sintetico di questo progressivo intreccio nell’attuale processo di globalizzazione.
Lo stesso disinteresse del movimento operaio e sindacale, e della sinistra politica, è stato, nel frattempo, sostituito da una crescente attenzione, certo spesso infastidita, anche ottusa, ma infine rassegnata alla o persuasa della centralità dei temi ecologici. Enzensberger spiegava la riluttanza e l’avversione della sinistra verso l’ecologia con la presa che su di essa ha sempre avuto il mito del progresso, l’idea che la società liberata dagli inciampi egoistici del capitalismo poteva emanciparsi dalla stretta della necessità ed entrare nel regno della libertà, capace di soddisfare in modo illimitato i bisogni umani. Quel regno che, appunto, “se le equazioni dell’ecologia tornano”, bisogna spostare molto più in là nel tempo, posto che possa realizzarsi.
Ora, al di là del fatto che grandissima parte della sinistra e del movimento operaio ha del tutto rinunciato a porsi il problema di inverare un qualche “regno della libertà” e, più modestamente, si batte soprattutto per miglioramenti sostanziali da ottenere in questo mondo presente, la questione ecologica è diventata uno dei temi forti della sinistra medesima. A parole, soprattutto. Nei fatti, se non è tuttora scettica come allora, dimostra di non saperla in alcun modo integrare in una strategia politica ed economica, in un paradigma culturale nuovo. è come se, pur pensando le stesse cose di trent’anni fa, la sinistra si rendesse conto dell’incombere sui propri paradigmi e sull’intero proprio impianto tradizionale politico e culturale, del tema ecologico, ma non sapesse come concretamente affrontarlo. Ogni volta che la sinistra va al governo questa incertezza si esprime clamorosamente. Ogni volta, cioè, ricomincia come sempre: ribadisce la centralità della crescita, del pil, promette sviluppo, cerca di mandare avanti la macchina produttiva e consumistica alimentandola al solito modo (combustibili fossili e nucleare, quest’ultimo, in Italia bloccato per via referendaria da un paio di decenni, ma sempre più oggetto del desiderio di rilancio).
La scarsa consistenza politica ed elettorale del partito verde italiano – e la sua ancora più scarsa consistenza culturale, da cui deriva la sua poca o nulla autorevolezza – non ha certo aiutato la sinistra ad evolvere. I grandi temi, i grandi impegni in materia, perciò, o vengono del tutto disattesi o si traducono in piccole e medie pratiche certo utilissime (e quanto possa essere utile, ad esempio, la buona pratica della raccolta differenziata dei rifiuti lo si è visto nella crisi della monnezza) che tuttavia non riescono a fare sistema, a produrre un salto di qualità nell’organizzazione complessiva della produzione e del consumo, negli stili di vita e nella scala delle priorità dell’agenda politica, economica e sociale, ancora dominata dal mito e dal diktat della crescita purchessia, dal primato del pil e dall’angoscia da carenza energetica cui sfuggire grazie a una nuova era nucleare (del nucleare “pulito”: certo, come no).
Tutta la fallimentare esperienza del governo Prodi si è giocata su questa linea. A una serie, anche fitta e pregevole, di piccoli buoni provvedimenti “verdi”, si è costantemente contrapposta una politica reale del tutto interna alle logiche sviluppiste tradizionali, tese al rilancio dei consumi, ai sacrifici da fare oggi per reinnescare la crescita domani e avere più ricchezza dopodomani, in un contesto in cui la stessa autonomia energetica si punta a ottenerla sempre al solito modo (inceneritori, rigassificatori, acquisto di energia dalle centrali nucleari degli altri paesi, ricorso alle solite fonti fossili, tentativi di ripartire col nucleare – sì, “pulito”, come no).
Con la fine del governo Prodi finisce anche la seconda esperienza dei Verdi al governo dell’Italia. Finisce male, come tutta la vicenda del governo di centrosinistra, ma rischia di finire ancora peggio la partita tra un approccio che almeno tenti di prendere sul serio nell’azione di governo la questione ecologica – come ormai avviene in tutto il mondo, dall’Australia che su questo punto ha appena visto cambiare la maggioranza di governo con la vittoria di verdi e socialisti, fino, e perfino!, agli Stati Uniti di Bush e di “Terminator” Schwarzenegger, non solo del Nobel “verde” Al Gore – e il solito approccio predatorio, dissipativo, consumista, sviluppista, economicista e industrialista ancorché riverniciato. Rischiamo, cioè, che il fallimento di Prodi spinga a una deriva antiecologica, riportando in auge le più qualunquistiche e superficiali impostazioni neoliberiste e le più interessate visioni di parte (le lobbies energetiche e industriali, e lo stesso complesso militare industriale che sul ritorno al nucleare sta spingendo fortissimamente).
Insomma, nel momento esatto in cui l’intero pianeta sta facendo i conti con la drammaticità e la complessità della crisi climatica ed energetica, cioè con il prodursi pieno della questione ecologica, c’è il rischio che l’Italia torni in mano a chi non l’ha mai riconosciuta nella sua gravita e, nel caso che lo abbia fatto, ne ha per mero interesse mistificato la natura e la portata (Berlusconi, nel 2001, vinse le elezioni ripetendo che “l’effetto serra si farà sentire in un lasso di tempo pari a quello che ci separa da Giulio Cesare”: vinse non malgrado, ma anche grazie a dichiarazioni come questa, musica per le orecchie degli italiani, ai quali questi film piacciono molto). Anche per questo, non finiremo tanto presto di deprecare l’inconsistenza e l’arretratezza politica e culturale dell’esperienza di governo del centrosinistra.
I saggi, le interviste, gli articoli dedicati da questo numero di “Lo straniero” ad alcuni dei temi oggi cruciali dell’ecologia mostrano la rilevanza e l’ampiezza dei problemi che essa abbraccia, dal genoma (come siamo intimamente fatti e cosa si potrebbe fare di noi, nel bene e nel male) alle trasformazioni di paesaggio e territorio (Angioni sul tema, fondamentale, del governo delle trasformazioni, Clément sulla portata generale del rapporto tra presenza umana e spazio) fino al nodo del controllo democratico sul modo di organizzare l’agricoltura, di utilizzare i semi e i brevetti, di strutturare il territorio, il corso delle acque, il rapporto tra produzione e libertà, tra saperi millenari, ricerca scientifica, tra potere politico e corporations, quindi tra sovranità nazionale, culture tradizionali e nuove gerarchie prodotte dalla globalizzazione (Vandana Shiva).
Basterebbe questo per dimostrare, dunque, infondata la critica del 1973 di Enzensberger sulla parzialità dell’approccio ecologico, che in realtà, fin da allora, tendeva piuttosto a essere complessivo e, come si è visto poi, a rileggere il tessuto del pianeta dal proprio punto di vista (che è quello dell’interdipendenza dei fenomeni, della limitatezza delle risorse, della finitezza del mondo). Ma proprio lo sguardo d’insieme che questo numero di “Lo Straniero” consente, conferma la fragilità del pensiero e delle pratiche “verdi” nel nostro paese. Una fragilità che non è soltanto di una parte politica e che non è neanche solo di estrazione “piccolo borghese” come voleva, a suo tempo, l’Enzensberger di “Palaver” (“Palaver” significa anche “fare discorsi inutili”) ma che connota un intero paese, un’intera società, che in essa può leggere, insieme, la propria ipocrisia, la propria arretratezza, il vero deficit di vera modernità che le grava addosso.

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"Tutte le promesse di benessere e tutte le sicurezze date in epoca moderna dalle istituzioni statali nazionali, dai politici e dagli esperti di scienze e tecniche, sono state distrutte. E non c'è più in giro un'istanza che tolga all'uomo le sue nuove paure. Ecco allora che la crisi ecologica ci fa intravedere qualcosa come un senso all'orizzonte, persino la necessità di una politica globale ed ecologica nel nostro agire quotidiano". U. Beck